…E persino il prete ha avuto qualcosa da ridire sull’installazione di Ignazio Fresu, Cento scale (scale che salgono e scendono ma non portano da nessuna parte). «Ho parlato con chi critica l’opera di Sciolé – rivela Laura Coppa, curatrice del festival – ma ho trovato un rifiuto totale». E il sindaco Andrea Bomprezzi aveva fatto in tempo a dire, in città alla presentazione del festival che «ad Arcevia siamo aperti, nessuno si scandalizza come è successo ad Ancona per Violata»
Cento scale vuole richiamare, attraverso l’oggetto simbolico della scala, la poesia di Eugenio Montale “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”, in cui il poeta esprime la sua concezione dell’esistenza. La realtà non è quella che si vede con gli occhi e si percepisce con i sensi, fatta di impegni e casualità, insidie e delusioni, ma è qualcosa che va al di là delle apparenze non solo di chi crede che la realtà sia quella che si vede, ma anche di chi, pur avendo piena consapevolezza che ciò che vede e percepisce non è la realtà, ha altresì coscienza che questa resti essenzialmente insondabile per l’uomo.
È un profondo sentimento di assenza rappresentato dall’impossibilità di salire (e scendere) i fragili gradini che compongono le scale con un faro che possa illuminare e rendere chiare le verità più profonde, possa dare significato alla percezione della propria esistenza, squarciando il velo di Maya.
Quella che in Montale era una stanchezza esistenziale che si acuiva con la perdita della compagna del viaggio di una vita, nell’opera di Fresu diventa la comprensione dei limiti dell’uomo, l’assenza di riferimenti che porta all’inconoscibilità del reale.
A questo si sovrappone un’altra istanza: le cento scale del titolo richiamano infatti nell’artista ricordi d’infanzia legati alla sua città natia, Cagliari. “Centu Scalas” è da sempre chiamato l’antico anfiteatro romano a Cagliari, dove i genitori da bambino lo portavano a passeggio. Il ricordo di quel luogo rappresenta per Fresu l’assenza, la mancanza che è però colmata dal dolce sapore del ricordo, della memoria, che riempie l’impenetrabile mistero della realtà.
Testo di Alessandra Frosini