Curatore d'Arte
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Aurora Maletik, lampi di bellezza e verità

“La fotografia è un lampo di bellezza e verità” Donato Di Poce

“Il progetto “La via dei sensi” cattura ritagli dell’universo femminile. La donna è al centro di una riflessione tra ironia e intimità, tra grottesco e frammenti di realtà: tutte storie di un film non ancora girato. Il percorso scava nelle emozioni più recondite, sfiora l’universalità dei sentimenti, ma è sempre alla ricerca di una risposta nei luoghi e non luoghi dell’altrove…” A. Maletik

Ecco svelato il tema centrale della sua poetica, la bellezza, la via dei sensi, come antidoto alla morte, al tempo che passa, all’abbandono delle cose amate, la bellezza come punto fermo alla diaspora del quotidiano, il sogno come nido e ritrovamento nel deserto della dissolvenza umana. L’altro elemento d’incanto che mi ha fatto amare la fotografia di quest’artista, è la sua riflessione sullo specchio e la meta fotografia, ovvero la sua presenza nelle foto scattate. Qualche anno fa scrivevo nel libro “Guardare non è vedere”, CFR Edizioni, quanto segue: “Ogni qualvolta vediamo la presenza di una fotografia dentro un’altra fotografia, siamo in presenza di una meta-fotografia. Tutti abbiamo in mente il quadro di Velasquez “Las Meninas”, dove l’artista si ritrae nell’atto di dipingere; o “La stanza di Van Gogh” dove l’artista ritrae appesi alle pareti, altri suoi quadri; nell’installazione di Mauro Rea dedicata a questo quadro, oltre a ritrarre altri suoi quadri, l’artista impone la sua presenza fisica mentre scrive una lettera a Vincent, realizzando contemporaneamente una meta-rappresentazione e una’azione creativa al cui centro c’è sempre l’immagine intima e accogliente dell’atelier(casa) dell’artista”. Non conoscevo ancora Aurora, che fa un’operazione ancora più profonda, mette se stessa come oggetto e soggetto delle sue immagini, ma non come banali selfie moderni, ma icone struggenti e vissute di un sogno Felliniano, di un’atmosfera nostalgica e surreale alla Ferenc Berko, di una presenza erotica e lussuosa di Newton e Avedon, dove basta il particolare di un tacco a spillo o un guanto, un’immagine riflessa allo specchio, un’ombra su un muro rosso o una fanciulla sola che attraversa una strada sotto un ombrello, per aprire sguardi sul mondo interiore di un femminile itinerante che cerca se stessa nell’altrove di una presenza, nell’essenza di un senso, come una Venere incantata. E bene fece Rosamaria Francucci a rilevare che :“…I suoi scatti, hanno l’incisività e il fascino di fotogrammi cinematografici più che di tradizionali fotografie esplorano con puntigliosa e costante assiduità proprio questo territorio di frontiera tra le arti e catturano a piene mani frammenti di realtà spesso immaginate o soltanto evocate…”. Ma torniamo un attimo alla presenza dell’artista come oggetto e soggetto fotografico. Quello che mi preme dire è che il suo corpo è usato come simulacro e presenza mitologica, e non in accezione nichilistica e voyeristica o di pruriginosa sensualità, mai banale e superficiale, né ammiccante e superflua come tante suffragette pseudo erotiche deliranti che infestano il WEB e la scena artistica contemporanea, .né tantomeno usa il corpo come “oggetto pleonastico” e kitsch che proponeva Luigi Ontani negli anni ‘70. La sua presenza è sempre elegante e raffinata, la donna ideale proposta è lei stessa, è la sua anima in attesa , in riflessione(spesso in lettura di libri), in viaggio verso l’armonia affettiva ed esistenziale, tra i suoi sogni e i palcoscenici loro si spogli e volgari della realtà, “sempre alla ricerca di una risposta nei luoghi e non luoghi dell’altrove”, dove il corpo stesso è un altrove da scoprire. Ed ecco rivelato in un lampo di bellezza e di verità che incombe in atmosfere aurorali, il vero soggetto della poetica dell’artista, cioè l’altrove. Un altrove nascosto dietro una rete da pesca o dentro una nuvola di fumo, cercato in un set cinematografico o dietro le quinte teatrali, sussurrato dentro un sogno creatore e fantasma di materia e di phatos, un’attesa che esercita il suo diritto di libertà e di trascendenza. Chiamiamoli allora come suggerisce l’artista, percorsi interiori o le vie dei sensi, o sogni ad occhi aperti, sono comunque sogni rivelatori, stanze di un altrove e di una visione. La sua Azione creatrice produce magie e un enigma di bellezza senza tempo e senza limiti, che con la luce cattura il tempo e il clic di un pensiero irretisce le vibrazioni dell’infinito, e il sogno inizia a catturare tempo, movimento e sensi. E Aurora inizia a svelare segreti, a sognare e farci sognare. E come diceva una grande filosofa del sogno creatore, Maria Zambrano, “ Sognare è già svegliarsi”.

Donato Di Poce

L’immagine della donna che Aurora fissa con l’obbiettivo è, credo, la proiezione di sé stessa, della sua anima, del suo mondo interiore. Le sue donne vi appaiono come filtrate da uno schermo di diafano alabastro, che lascia passare una luce tenue, nella quale la figura femminile emerge dallo sfondo senza però distaccarsene mai del tutto, come se non volesse abbandonare il mondo rassicurante

fatto di morbidi mezzi toni e ombre che le circondano: persiane socchiuse dietro le quali si perde lo sguardo, tende appena mosse da un alito di brezza, riflessi sui vetri che si fanno specchi in cui interrogarsi, vestaglie che scivolano dalle spalle nel silenzio della stanza su pavimenti di caldo legno profumato. Le gambe che salgono scale forse già note sono le stesse che percorrono in bilico come un funambolo la linea gialla che corre parallela a binari che portano a destinazioni sconosciute.

Lontano da dove, verso dove Aurora? Tu stessa, forse, non lo sai.

Cesare Alberto Loverre

Lo specchio del sé

Massimo Bignardi

Una ricerca fotografica orientata a favorire Tidea del vedere fine a se stesso”, persiste nelle esperienza in corso o, almeno, si dà come linea preminente. E quanto segnalava, già dagli anni settanta, Susan Sontang riflettendo sulla fotografia, estendendo l’analisi al rapporto tra realtà e immagine nella società contemporanea, come chiarisce il sottotitolo, del suo ben noto saggio Sulla fotografia. Tale rilievo investe un concetto più ampio, toccando aspetti che chiamano in causa l’esercizio del vedere, alla luce oggi del ruolo che le immagini hanno nei sistemi della comunicazione, alla capacità che esse mostrano nel rapido e perentorio rinnovarsi delle tecnologie digitali. Eppure quella che genericamente è indicata come fotografia

“artistica’ ha fatto maggiore presa da quando si è passati dall’analogico al digitale, aprendo lo sguardo ad un ventaglio di esperienze che hanno risposto a quanto affermava Alfred Stieglitz: “La fotografia è la mia passione, la ricerca della verità la mia ossessione*.

Tale esercizio della fotografia connota il registro che tiene insieme i diversi momenti, dettati dalle esperienze condotte in questi anni da Aurora Maletik. Esse seguono un fil rouge narrativo, teso tra il paesaggio, dalla Maletik non riconosciuto come scena, bensì luogo di un dialogo corale con la natura che incornicia Matera con le sue tufacee architetture, fatte affiorate dalla Gravina e la costruzione di un’immagine che si presta a varcare la soglia della visione percettiva del reale e spingersi oltre, in un reale che non può essere condiviso.

Uno specchio messo su da Aurora Maletik con cura, disposto, come lei stessa fa intendere dal titolo dato a questa mostra, ove le strade si separano, ossia al bivio. La fotografia si fa specchio e le sovrapposizioni, i costruiti giochi di riflessi intrecciati tra loro, gli sguardi che si allungano sul paesaggio, dichiarano la necessità di Aurora di riconoscere una dimensione interiore, obbligando, avrebbe detto Barthes, lo spettatore a domandarsi chi è effettivamente la figura messa i in posa, se non è essa il riflesso (direi metafora?)

dell’identità dell’artista.

È questo, infatti, un dato evidente che balza all’occhio, seguendo il percorso di immagini qui proposto, dal quale appare chiaro il desiderio dell’artista di tenere insieme la duplicità di uno sguardo che spazia tra interni ed esterni. Il mirino della macchina si muove, cioè, tra una dimensione intimista, ove mette a fuoco una sorta di narrazione che coglie, senza nascondere un certo voyeurismo, figure femminili in interni sfumati, celati da effetti tecnici, da vere e proprie messe in posa e inquadrature che spaziano sul paesaggio. Più che la visione dello skyline della Matera dei nostri giorni, l’attenzione è rivolta ad un luogo direi metafisico, ove i gesti, le figure spostano la loro presenza dalla realtà dello spazio a quella di un luogo mentale, appunto metafisico.

Le sue ‘donne’ conservano, appena accennati, sia i tratti delle menadi, le baccanti dei riti dionisiaci, sia, paradossalmente, quelli delle donne che accompagnano il lamento funebre. Un fotogramma segna il bivio effettivo: ritrae una giovane donna vestita di nero, con gli occhiali scuri e il velo anch’esso nero che sale le scale; in secondo piano la Matera che ascende dai sassi.

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