Davide Frisoni. Il vecchio borgo S.Giuliano di Rimini, ancora negli anni 60, vedeva transitare tra si e no una, massimo due automobili, al giorno, un vero avvenimento che non passava inosservato.
Una stupenda Triumph cabrio perennemente parcheggiata nella piazza davanti alla chiesa del Borgo, era oggetto di pellegrinaggi quotidiani da parte dei bambini che stavano in adorazione come pie donne davanti ad una reliquia.
Queste erano le automobili, ben diversa la situazione camion.
Tutti i giorni la via S.Giuliano, la storica Via Emilia, diventava per tre ore il parcheggio di camion e dei primi camion con rimorchio, i papà dei moderni TIR.
La fermata era d’obbligo per la grande qualità e gli ottimi prezzi delle vecchie osterie del Borgo, il Lurido, la Marianna, Colombo, che erano la meta tradizionale per la sosta pranzo dei camionisti.
Non so se Davide Frisoni ha pensato a quei camionisti quando ha dipinto i volti di questi suoi quadri dedicati ai moderni Truckers. Io non ho potuto fare a meno di ripensare a questo passato di automobili (poche) camionisti e Rimini… insomma gli ingredienti di questa imperdibile mostra.
Ancora una personale per Davide Frisoni.
Dopo le grandi mostre collettive di Rimini (Confronto a dieci – luglio 2010) e Exibitalia (Art Basel Miami – dal 2 al 5 dicembre 2010) questa volta l’artista riminese è ospite nella sua amata Rimini. L’artista presenta una serie di circa 30 opere anche di grande formato. Il percorso immaginato dall’artista è “il
percorso dello sguardo”, lo stesso percorso che in questi anni lo ha visto porre l’attenzione sulla realtà quotidiana che lui definisce straordinaria. Un percorso che dal macro dalle ormai famose vedute di strade, al micro dei particolari degli asfalti.
Ma la vera novità dell’esposizione è rappresentata da una serie di nuovi e sconvolgenti ritratti di camionisti (Truckers) anche di grande formato, tutti realizzati in un affascinante bianco e nero di grande forza espressiva, esposti per la prima volta al pubblico.
Testo in catalogo di: Alberto Agazzani
Quando nel 1954 il grande critico bolognese Francesco Arcangeli pubblicò sul nr. 59 di “Paragone”, il mensile culturale di Roberto Longhi, il suo storico
saggio intitolato “Gli ultimi naturalisti”, egli non poteva immaginare che ciò in cui lui identificava l’ultimo ed estremo sussulto della “pittura di natura”, sia pure
con un linguaggio nuovo e certamente disancorato dalle forme della tradizione iconica sua progenitrice (che egli identificava in Wiligelmo, Foppa, Caravaggio, Crespi e Fontanesi), in realtà si sarebbe trasformato nel rigoglioso germoglio di una rinascenza pittorica incentrata sulla natura ed il paesaggio,
anche e non solo in chiave aniconica, indiretta, fortemente evocativa ed allusiva florida oltre mezzo secolo più tardi. «Natura – scrive Arcangeli nel suo saggio – è la cosa immensa che non vi dà tregua, perché la sentite vivere tremando fuori, entro di voi. […] E’ uno strato profondo di passione e di sensi» in cui si ritrovano in armonia, insieme, “felicità” e “tormento” in una condizione “traboccante, inquieta, eppure ancora terribilmente amorosa”.
In quel caso specifico il critico bolognese ri riferiva all’esperienza espressiva e pittorica di un gruppo di pittori “padani” (con ciò inventando la definizione un’area culturale prima ancora che geografica); pittori (tra i quali Ennio Morlotti, Pompilio Mandelli, Mattia Moreni, Sergio Romiti, Sergio Vacchi, Vasco Bendini e Mattia Moreni)che coi loro dipinti s’inserivano magnificamente nel solco della grande tradizione italiana tracciata dai loro grandi predecessori e, nel contempo, ne rinnovavano e ravvivavano la suprema essenza espressiva.
L’essenza della pittura degli “ultimi naturalisti padani” si basava su una percezione della natura “profondamente e amorosamente angosciata, quasi medianicamente intuita”, frutto dell’inquietudine generata dalla II guerra mondiale e dall’incubo, al tempo vivissimo, di una catastrofe nucleare, da quel “male di vivere” che genera in loro quell’autentica dimensione esistenzialista così percepibile nelle loro opere.
Per Arcangeli, dunque, la natura torna al centro dell’espressività pittorica, ma non come mero soggetto formale o ideale, ma come luogo metafisico della vita e della morte, come “ciclo di stagione, di rigenerazione […] che si guarda, si respira, si sente, si soffre, ancor prima che la si dica in parole”.
Con un ulteriore, successivo articolo, pubblicato nuovamente su “Paragone” tre anni dopo, Arcangeli ribadirà fortemente l’esistenza di “una prima e indistruttibile naturalità, vigente anche quando ogni altra cosa sembra venir meno”, evocando nuovamente la necessità di “un ritorno alla natura”, ma
arricchendo la sua riflessione invocando una nuova ed inedita “condizione immemorialmente anarchica” contro “esaurimenti, inerzie, formalismi”.
Quello che nel pensiero di Arcangeli sarebbe dovuto essere “l’ultimo naturalismo” ha avuto in realtà un felice seguito, che dalla lezione di quei maestri è arrivata a noi, evolvendosi ed arricchendosi di nuove inquietudini e nuovi sentimenti. Tra le più felici esperienze espressesi in quel solco va annoverata quella del riminese Davide Frisoni, per il quale, come per molti altri suoi compagni d’avventura, il senso panico ed inafferrabile della natura si esprime nella rappresentazione della metropoli, quel luogo fisico e mentale, cioè, nel quale la natura incontra la sua negazione, generando un nuovo, ed originariamente inedito, mistero panico.
Frisoni è pittore dalla mano sicura e dalla notevole sensualità pittorica. Prova di ciò sono le scelte cromatiche vivaci e armoniose, il senso di una matericità raramente di maniera. Ma sopra tutto, l’approccio con la realtà che, come nel caso dei suoi antenati ma filtrato da un’educazione visiva meno incorrotta, viene rappresentata in chiave eroicamente romantica. Nelle immagini di Frisoni il luogo d’incontro fra natura e metropoli è occasione d’evocazione sensuale, prima ancora che di illustrazione, di rappresentazione. Il pittore cerca e trova l’essenza panica di un attimo, di un bagliore, di uno squarcio di cielo possibile solo nella sua anima, nella sua sensibilità e ricercato nella sua rappresentazione pittorica. Quella di Frisoni è una continua, infaticabile, infinita caccia
all’ ”attimo fuggente”, a quella sensazione di smarrimento tutta romantica che lo riporta a quell’”ultimo”, ma evidentemente non tale, naturalismo arcangeliano.
Così, sia che si tratti dei luoghi della sua vita e della sua memoria (la Rimini oggetto di questa mostra) o di particolari apparentemente insignificanti, ma elevati al rango di soggetto (asfalti, pozze d’acqua, ecc) e resi al limite dell’informale puro (ma mai tale da perfetto neonaturalista), o ancora “visioni”
(felicissima quella ispirata alla riminese pala con la visione di Girolamo del Guercino), Frisoni non rinuncia mai a sondare lo sfuggente mistero della natura, mai. Lo stesso mistero che egli, sorprendentemente per l’inusualità dei soggetti, ricerca nella lunga galleria di ritratti di antieroi del nostro tempo; personaggi, volti, espressioni quotidiani e di ordinaria esistenza, ma portatori del sacro mistero dell’anima e della vita, quindi pure loro pervasi di un mistero che dalla natura s’eleva al divino. In quest’ultima sezione Frisoni compie un ulteriore salto espressivo, spogliando la sua pittura della consueta ricchezza cromatica (si tratta in definitiva di monocromi), esaltando così la forza delle espressioni e della sua espressività. E raccontandoci la sua nuova ricerca ai limiti di una natura ancor più misteriosa di quella panica.
Alberto Agazzani