DIANA KIROVA IL MITO DI ICARO E LA CONTEMPORANEITA’
Tra i tanti miti dell’Antica Grecia, il più ricordato e citato resta forse la storia di Icaro che, grazie a delle ali di cera costruitegli dal padre Dedalo, riesce a volare fino a vicino al sole; così vicino che le sue ali si sciolgono e lui precipita e muore. Questo mito deve la sua fortuna a uno dei caratteri più profondamente innestati nella natura umana: il desiderio del volo come metafora di libertà, ma anche e soprattutto di elevazione. Per allargare i propri orizzonti e aumentare la propria conoscenza, fosse anche solo in termini di raggio visivo, l’uomo ha trovato nel proprio corpo la volontà del diventare bipede per poi iniziare a sognare un’ulteriore forma di evoluzione: quella delle ali come strumento necessario per vincere l’ancoraggio a terra e la forza di gravità. Già fin dalle pitture rupestri dell’Europa del Paleolitico, che a volte raffiguravano proprio degli uomini-uccello, abbiamo la chiara dimostrazione di come l’uomo, da sempre, abbia anelato a raggiungere una dimensione mista tra “essere del mondo” ed “essere del cielo”. E la creazione dei misticismi, dei credo e delle varie religioni, ha confermato l’idealizzazione operata dall’uomo rispetto al volo. Per conferire divinità, si immagina che l’essere superiore abbia in primo luogo la capacità di volare, che non risenta della forza di gravità e che, spesso, la sua struttura fisica sia un’unione tra il corpo umano e quello degli uccelli, ad esempio come negli angeli. Se agli uccelli, unici nel mondo animale, invidiamo una caratteristica che ci è nettamente preclusa, se questa stessa caratteristica è per noi qualità e caratteristica del mondo divino, e se il nostro scopo di vita è proprio il raggiungimento di una spiritualità talmente elevata da meritarci anche noi l’ascesa a una dimensione paradisiaca in cui vivere nell’alto dei cieli, capiamo subito che la figura del volatile è nella mente dell’uomo l’anello di congiunzione tra sacro e profano. Chi porta le ali, si tratti di una colomba che raggiunge l’arca di Noè o di un arcangelo Gabriele che Annuncia l’avvento del Cristo, è l’intermediario di Dio con gli uomini. Quello che con questa introduzione si vuole sottolineare è il carattere fortemente simbolico che anche un singolo uccello può risvegliare nella nostra mente, soprattutto se viene ritrovato all’interno dell’arte, in cui siamo sempre abituati a cercare il significato taciuto all’interno di rimandi e di codici archetipici. Se poi la figura è completamente immersa in uno sfondo neutro, come appunto nel caso di Diana Kirova, è ancora più chiaro che quello di cui si sta parlando non è una raffigurazione, ma una proiezione. La proiezione che l’artista compie nei suoi dipinti è di forza uguale e contraria all’umanizzazione degli animali che si ritrova nelle favole di Fedro tanto quanto in quelle di La Fontaine. Se nelle fiabe per bambini – e per adulti – l’animale si sente uomo e acquista delle caratteriste terrene per creare scenette divertenti e paradossali, Diana Kirova rappresenta dei volatili per identificarsi con loro, sentirsi uccello, e assorbire delle caratteriste spirituali per superare i conflitti emotivi e pratici che la condizione umana impone. In questo senso i ritratti su sfondi neutri e a volte monocromi che fa a diverse tipologie di volatili, sono in realtà degli autoritratti, forti giochi di ruolo in cui l’artista diventa un personaggio delle Metamorfosi di Ovidio e, almeno idealmente, acquista una forma capace di alzarsi dal suolo per superare definitivamente quelle barriere che viste da terra sembrano alte e che viste dal cielo sembrano piatte. Non ci si illuda, però, che sia una trasformazione facile. Di fatto è quasi più una lotta. La natura umana imperfetta e l’idealizzazione a cui l’artista cerca di tendere, spesso e volentieri combattono e la prima prende il sopravvento cancellando dei tratti, sfumandoli o decomponendoli fino a far apparire una figura che si sta come sciogliendo, proprio come le ali di cera di Icaro. In questi casi lo sfondo prende il sopravvento e mangia la figura dal di dentro, rosicchiandola e facendole rischiare lo schianto. Una fragilità che si sposa bene con la leggerezza delle figure, con la neutralità su cui sono dipinte, con i colori delicati, morbidi e tenui, con il tratto quasi invisibile e la sintesi diretta e immediata che fa focalizzare subito lo spettatore sul simbolo. E gli uccelli, già così tanto ricchi di significati simbolici, assumono un tono ancora più poetico nel momento in cui nei quadri di Diana Kirova sembrano quasi in prova di volo dopo o durante un periodo di fragilità così eccessiva da definirsi quasi malattia. Questa malattia non è altro se non la stessa umanità di cui l’artista, identificandosi con gli uccelli, non riesce comunque a liberarsi. Questa corrode i sogni su una spiritualità totale e pura e riporta con una ferma ostinazione al peso della terra. La guerra per superare i propri confini umani e fisici, per il momento resta invadente e continua a fare parte del percorso della storia umana.
Carolina Lio