Nel mio precedente scritto sull’artista (“Incontro con Nicola Morea”) io festeggiai la crescita qualitativa e il felice inserimento del pittore di Mola nel gusto odierno, in quella pittura cioè degli anni Ottanta, di cui in questo ultimo lustro, confortabilmente, si sono aperte rassegne dentro e fuori le Fiere d’arte: un avvio perentorio, quasi una esplosione di Nicola Morea che superava di un balzo le accarezzate lentezze del grafico e, nelle sue “passeggiate” fra architettura spontanea in Puglia e Barocco (1981) i «fantasmagorici chiari, come canti a bocca chiusa, della fase della Murgia (1983-84) senza contare quell’esperimento in certo senso concettuale delle te/e tagliate, ovvero lavori che si distinguevano per linee diagonali o verticali a dividere il paesaggio». Chiarivo in quel mio primo scritto un fatto essenziale nell’arte del pugliese e cioè che la pittura precedente a quella che mi aveva colpito di lui all’Expo Arte di Bari nel 1986 era ricca di futuro, la sintesi pittorica non disgiunta da una trepida materia; in special modo, nelle te/e tagliate il senso araldico e delle geometrie era tutt’uno con la evocazione del colore. A distanza di un anno e mezzo dal momento in cui scrissi la prima volta di Morea, ad oggi che vedo una densa e nuova messe di lavori eseguiti con gran lena quasi come in un canto filato, le opere di ieri (le definii trans avanguardisticbe per il senso ludico e per la consapevole irresponsabilità di certi incontri di stili, per es. cubismo ed espressionismo, astrazione e descrizione figurate, il tutto in una pittura da cavalletto) mi sembra necessario aggiustare un po’ il tiro. Le opere esposte alla Expo Arte e immediatamente successive rompevano alquanto con quelle di una volta e si inserivano con un salto nella ricerca odierna; ma è anche vero – è questa la mia rimeditazione alla luce dell’ultimo Morea – che prendevano linfa da quella rincorsa. Certe tele eseguite dal pittore di Mola oggi, si avvicinano molto più ai suoi antichi precedenti – quanto a poetica evasione, fantasia e icastica del segno – che non ai pur convincenti risultati del 1983. Intanto è da dire cbe la fase chiarista del pittore, – per la più parte in operette come pizzicato di violino, ma quasi asegniche, tanto sono implicate nella luce tra rosa e azzurri, – filtrate oggi da quelle del 1987, assumono una grazia… materna, sorridono sovente con la stessa faccia delle loro figliole. Insomma questo pugliese di fantasiose avventure riacquista la sua patria quando si vede il ciclo della Murgia (riprodotto felicemente anche in cartoline), quando le visioni fiabesche, le iperboli del suo sogno ad occhi aperti, che egli oggi inserisce in una sorta di teatro astratto, di triangolazioni di luci colorate, si motivano in virtù di certe “vedute” di “impianto scenico” – come scrisse Daniela Poggiolini – quali “Ostuni: la cattedrale”, “Architettura spontanea e Barocco in Puglia”, “\Vecchie inferriate ed archi”. Insomma questa fase remota della sua ricerca specchia un impegno spontaneo di pittura che è il medesimo di quello odierno. E lasciando alt’altro mio scritto quanti vogliano approfondire l’avvio ludico e trans dell’artista – pubblicato del resto in occasione della sua recente mostra personale (Novembre 1987 a Bari) – Spazio Espositivo Promozione Arte, piazza Ferrarese -entro nel merito del suo odierno momento. II Mai come stavolta la lettura di una fase artistica di pittore in evoluzione e in crescita coincide con la lettura delle singole opere, per me, testimone, del resto, di fatti e non facitore di formule. Ecco qui “Relitto”, opera di quest’anno in cui noto una misura esemplare tra effusione inventiva, spazio per la fantasia e schema mentale. In una specie di paradigma viene armonizzato il senso dell’immagine, quale quella del pesce come consunzione organica e, nel triangolo del mare, la tenerezza dell’azzurro plein air. L’araldica, l’icastica dell’astrazione svariano in quei triangoli di luce-colore, azzurro, verde, rosso;recitano dal vellutato nerofumo del fondo. Questa “macchina” immaginativa che diviene fantasia, è alla base di tutto un ciclo, di cui appunto questo quadro è tipico esemplare. Anche “Estate” si esprime nella medesima sovrapposizione dei triangoli – ma sono triangoli di luci colorate a causa di “finestre” improvvisamente aperte – sui quali si collocano taluni dettagli o episodi di vita, quasi che le nette cromie scaturite dalle “finestre” costituissero la ribalta e quei dettagli i personaggi. Si intuisce in ocre, una figura femminile, seno, schiena, sedere, gambe affusolate; e “sotto”, un nastro, un indumento azzurrino. Certo l’artista non ci vuole gran che informare con questi dettagli, la sua immagine globale non è di racconto, per quella sorta di reticenza che i modi astratti portano con sé; ma non vuole mai essere un artista del puro geometrico, dell’astrazione fine a se stessa. Una serie di lavori che Morea chiama “quartetto”, di formato rettangolare – grande finestra di finestre, si potrebbe chiamare ciascun lavoro, se questo titolo delimitasse troppo il necessitato-indistinto – mi vien fatto di citare in questo inventano: si tratta di finestre che si aprono, come in “Abbraccio”, a formare triangoli tanto misteriosi quanto intensi di spazi cromatici, in uno dei quali si riesce a cogliere, quasi che l’artista ce l’abbia volutamente nascosto, scavato in un azzurro più chiaro, un piccolo abbraccio liciniano. (La fedeltà al modo funambolico di figurare di Osvaldo Licini è anche qui un pregio e non un limite). Vedendoli insieme questi quadri del “quartetto”, si apprezza di più la varietà del ritmo con cui si muovono vuoti e pieni, sintesi e dettagli, pittura stesa, mentalizzata e pittura mossa, come il vitale triangolo rosso, che per il taglio della tela, diviene un rombo, nel quale in un rosso più chiaro, è leggibile una figura di donna. Astrazione e figurazione connessi in emblema, questa è la dialettica, ancora, di “Momenti”. La figura è così bellamente inserita, con la sobrietà civettuola di un ritmo grafico, che non si percepisce subito, nel triangolo verde, decorato di una cornice di smeraldo scuro. Il richiamo alla caratteristica serpentina bianca che folgora sovente alla metà dei suoi quadri, è nel contorno del corpo femminile e il richiamo al nerofumo del fondo è nel nero delle calze della donna. Emblema, gioco, indovinello, in una espressione che si sostiene nella pittura, direi meglio in virtù del dipingere e del dipingere come un artista di cavalletto. Non sempre le varie tessiture materiche sono uniformi, le varie zone “geometriche” captano diverso pigmento, come in “Texture”. Qui il gioco, appunto, si risolve in gran parte con la diversità delle materie, in quelle geometrie imbevute di atmosfera, in quei piani che sono prima di tutto spazi e spazi di giornate, di stagioni. Texture di giorni amati, di memorie che scattano dal buio e che vengono ulteriormente visitate da luminosi filamenti, fulmini teneri al di qua, questa volta orizzontalmente, per tutta la lunghezza della tela. Ecco che certi quadri eseguiti nel 1985/86 e che sono stati oggetto del mio precedente esame, si allineano con disinvoltura a questi di oggi, come per es. il ciclo delle “grazie”, o delle “tre grazie” che prende il titolo dal fatto che “l’impianto è lo stesso” mi suggerisce l’artista. Sono di una differente densità di materia nei toni che diventano timbrici. La figura, nè defilata, nè sottaciuta, qui manca del tutto. Sono spazi liciniani senza Àmalasunte o angeli rampanti, se mai nasce nello spazio color pavone un groppo di cellofane azzurro, una “cosa” magica come in quel quadro dai mezzi soli; a far capolino da una iperbole di piramide. A mano a mano che leggo i quadri di Nicola Morea, avverto una impressione più positiva, non soltanto per la loro tenuta pittorica, ma perché questa sua ricerca riesce a conservarsi nel medesimo schema: una varietà di temi, ora astratti tout court (o quasi) ora imparentati con l’emblema figurale, sempre dentro l’alveo del fare avanguardistico e trans. III La fisionomia del pittore di Mola è autobiografica e lirica al fondo; se risulta, alla fine, per nulla provinciale, ciò avviene in virtù della sua ricerca che non è certo quella del paesista limitato dalla pugliesità. Eppure la maggioranza dei suoi quadri respira il territorio, la natura con le sue notti e i suoi giorni folgoranti è quella del Sud e della costa, le immagini “astratte” sono condensazioni della sua memoria qui e non altrove. Direi quasi che ogni quadro riuscito di Nicola Morea ha avuto una verifica in una certa realtà vissuta, sovente riconoscibile. E non per una avventura culturale, ma per una necessità umana, l’artista si è cimentato in viaggi e passeggiate pugliesi tra architettura spontanea e Barocco e per una naturale e poetica inclinazione ha lavorato per diverso tempo nella maniera chiara, nei piccoli e intensi sguardi sulla luce rosata e azzurrina della sua terra, delle sue spiagge. In questo felice e nuovo momento creativo c’è un gruppo di opere che vale la pena studiare a parte, che io chiamerei del paesaggio ritrovato, non come un semplice ricupero dell’immagine sensibile e riconoscibile, ma come sua maggiore identificazione poetica nel paesaggio. Intanto, quasi a simbolo di questo gruppo, indico “Il Menhir”, la tipica stele sessuale della Puglia, questa di cui l’artista racconta, di pietra, alta tre metri, si trova nelle vicinanze di Modugno, a presidiare i campi, tra terre rosse, muretti e ulivi. Naturalmente lo spazio per l’invenzione, anche qui, è grande, perché Morea concede poco o nulla all’impegno documentario. La stele è di un bianco marmato, che prende luce e colore dal cielo. Lungo il suo fianco sono disegnati di pennello alcuni segni dei trulli, quei segni che si trovano nei tipici monumenti rifugi della Puglia e in modo particolare in tutta la valle d’Itria e cioè: il segno di Mercurio, la Trinità, la Scala cosmica, la Croce-albero che unisce i tre mondi celeste, terreno e degli inferi. Non si tratta qui di un “lettering” con l’aiuto di ideogrammi arcaici, ma solo della presenza del passato remoto, su una pietra ancora più antica. La testimonianza è però lirica, personalissima, nella tenerezza della tavolozza, nella sintesi grafica. In questo gruppo di opere è da collocare un ottimo lavoro “Puglia”, eseguito nel 1983, antesignano di altri della sua ricognizione sintetica, su una terra molto amata e mai dimenticata. Il grande vuoto nero che copre i quattro quinti della tela è l’invenzione: perché gli elementi emblematici di natura, il mezzo girasole, uno dei simboli della Puglia, il segno del trullo, la terra rossa, il mare, sono assai curiosamente sospinti fuori, nell’angolo basso, come a dire che nell’amore per la sua terra non c’è turismo o facile bellezza, c’è simbolo e memoria e solitudine, visitata dal furore delle primavere. Paesaggio e no, canto più o meno spiegato, più o meno contenuto e come imbrigliato nelle geometrie, sulla natura, si festeggia in “Scorcio di Puglia” eseguito quest’anno, “Polignano di Notte” (quest’ultimo un semplice diagramma di luci a disegnare contorni di esse nel buio, un piccolo elettrocardiogramma di paesaggio) “Vecchie case a Mola” – ovvero omaggio ad O. Martinelli. “Scorcio di Puglia” (1987) è intermedio tra quei paesaggi “scacciati” dal nero e quelli emblematici dentro triangoli colorati. Qui il tratto di costa coi bianchi pugliesi delle case, segno di un lindore non soltanto di superficie, è tanto evidente quanto misterioso . Con un artista cosi laborioso e sempre alla ricerca di se stesso fare il punto della situazione è difficile, anche se appassionante perché l’amico critico e viaggiatore corre il rischio, di anno in anno, di trovare un Nicola diverso; ma mi pare di aver detto la cosa più importante e cioè che il miglior biglietto da visita di Nicola Morea è la interiorità e la liricità del suo dipingere autobiografico, sempre con e dentro la natura, senza per questo rinunciare al gusto e agli stimoli delle avanguardie. E v’è un ciclo di opere ed operette in gestazione, foriere di ulteriori e fortunati sviluppi sempre sul filo della notazione sensibile dentro schemi astratti, tra cui un quadro di piccole dimensioni (le dimensioni piccole, nel pittore di Mola sono spesso testimonianze di futuri risultati) “Lo spazio dell’estate” che vorrei segnalare a conclusione di questo scritto: una sorta di progetto della massima semplicità figurale: due grandi laser, di un azzurro marino e di un polline solare rosso arancio, traversano il cosmo, buio come il nulla, ma con una forza e una felicità primordiali come per un’altra Genesi. MARCELLO VENTUROLI
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