Del lavoro di Costantino Baldino scrive in BLU DENIM, Carlo Fabrizio Carli. Può un materiale impiegato in modo insolito nella pittura o nella scultura assurgere a cifra individuativa del lavoro di un determinato artista? Certo che si: basta pensare alle sagome di legno da imballaggio di Ceroli, alle macchine rottamate e compattate, pronte per essere inviate in fonderia, di César, ai violini infranti e applicati sulla tela di Arman, e chi più ne ha ne metta. Certo, sarà magari un procedimento sbrigativo e, spesso, penalizzante per l’attività di quel certo pittore o scultore, che potrebbe esibire un ben più articolato percorso operativo, ma tuttavia è così. E se le cose stanno in questo modo, allora una cifra sommaria ma immediatamente riconoscibile della pittura di Costantino Baldino sarà da ravvisarsi nell’azzurro tessuto di cotone ritorto, che reca il nome commerciale di denim, ovvero l’altro, ben altrimenti noto, di jeans (che poi, cada qui en passant, è nient’altro che la corruzione della sigla del tessuto di cotone anticamente prodotto a Genova). Baldino ha infatti sostituito alla normale tela impiegata dai pittori, quella di jeans, che egli prepara in modo particolare, assicurando al supporto pittorico un effetto materico nuovo e associando un ulteriore grado di finitura, morbida e appunto tessulare, alla vivacissima, impeccabile stesura del colore vinilico. In realtà, l’artista romano ha scelto di fare ricorso alla tela jeans – spesso usurata – per i suoi quadri non da tempi recenti, ma addirittura dalla metà degli anni ’70. In questo lungo arco temporale – oltretutto inframmezzato da un non episodico ritorno di Baldino alla pittura di immagine, testimonianza di un inquietudine culturale che forse la nitida risoluzione dei dipinti astratti lascia trasparire solo in parte – anche la valenza semantica dell’uso, da parte del pittore, del tessuto denim è molto mutata. Se inizialmente, vista anche la forte ideologizzazione dell’epoca, questo si caricava spontaneamente di una polemica anticonsumistica, ovvero valeva ad accostare i quadri di Baldino ad una temperie pop (tanto da autorizzare l’uso al loro riguardo della formula di astratto simbolico), tali significati sono ormai venuti ovviamente meno, attestandosi piuttosto sulle già citate valenze tecniche di marca materica. Oggi, valenza senz’altro prioritaria nella pittura di Baldino riesce la musicale orchestrazione degli accordi del colore – delle varie zone di colore e dei relativi pesi cromatici – che l’artista affronta sulla scorta della propria sensibilità, corroborata dallo studio approfondito dei testi specialistici relativi alla grammatica del colore, dal classico saggio goethiano ai repertori della didattica de Bauhaus, a Kandinskij, a Albers e a Itten. È quasi inutile precisare, a questo punto, che, per Baldino, le armonie, le concordanze dei colori complementari, ovvero le dissonanze di quelli che non lo sono, costituiscono l’elementare articolazione del linguaggio pittorico. L’artista affronta la composizione del dipinto quasi d’istinto, senza bozzetti preliminari, con la sola mediazione di un piccolo schizzo. Assai calibrate tanto dal punto di vista compositivo che cromatico, tuttavia solide di una saldezza tutta struttiva, le composizioni dell’artista romano rifuggono dai registri della deformazione concitata dell’Espressionismo e delle accensioni romantiche dell’Informale. Ma quali sono dunque i referenti – perché ogni artista ne ha e questi costituiscono il suo spessore culturale – di questa pittura dai colori accesi quanto sapientemente orchestrati? L’artista stesso riconosce il lungo appassionato studio di due sommi, come Cézanne, maestro di tutti i moderni, e di Bonnard, in particolare per quanto attiene alla sua impareggiabile sinfonia coloristica. E c’è poi – com’è stato già messo bene in luce da Luigi Paolo Finizio – quella tradizione del moderno e specificatamente della sua sponda astratta, che richiama alla mente, poniamo, i nomi di Arp e di Magnelli, di Pasmore e di Soulage. Ma una referenza tutta particolare è quella che istintivamente si istituisce con Burri, e non con il Burri dei Sacchi, dei Cretti e meno che mai delle Combustioni, quanto con l’autore dei tardi e nitidi cellotex del ciclo Sestante, ovvero dell’attività dell’inizio degli anni Ottanta.
Tuttavia il museo è solo una delle matrici del lavoro di Baldino, tanto che egli stesso pone al primo posto il grande libro della natura, con le sue meraviglie sempre rinnovate e le fascinazioni ottiche, propriamente retiniche suscitate dal colore. Alla grande lezione del paesaggio, Baldino guarda soprattutto in cerca di rigore, di tassellazioni strutturate e strutturanti, che potrebbero magari ritrovare la loro dotta ascendenza nella celebre lettera cézanniana a Emile Bernard, con l’invito a scorgere (e dipingere) la realtà fenomenica secondo forme geometriche elementari. Vale a dire che, nel loro lessico aniconico, i quadri di Costantino Baldino dimostrano di non limitarsi a pure elaborazioni mentali, ma, al contrario, di essere stretti da presso dalla natura. Basta questo ad indicare quanto risulti lontana dalle attitudini e dalle intenzioni operative di Baldino un’estetica concretista (secondo gli enunciati del MAC, per interdersi). È lecito chiedersi, a questo punto, se si diano e quali siano le novità che la pittura di Baldino testimonia in questa mostra, in cui si espongono una trentina di tele, dipinte tra il 2002 e il 2006. Innanzitutto ci si imbatterà nel recupero del lettering, tecnica che il pittore romano aveva già felicemente impiegato nell’ultimo scorcio degli anni Settanta, immediatamente prima della già rammentata svolta figurativa. Adesso, il reimpiego delle lettere non deve essere tanto rapportato ad un discorso di poesia visiva, o di pittura come scrittura, ma piuttosto inteso come coinvolgimento nel rigoroso puzzle cromatico di elementi formali, magari suscettibili di attivare l’effetto proprio di una cadenza seriale. Il visitatore avrà modo di constatare come al momento (il di scorso appare con ogni evidenza in progressione, così da poter riservare novità anche in tempi brevi) il ricorso alle lettere risulti in diretta connessione al colore impiegato in quella determinata porzione del quadro (BLU DENIM, ROSSO, etc.), caricandosi in questo modo anche di una blanda valenza concettuale. Un altro motivo, consiste nell’emergere, sia pure episodico e sottile, dell’elemento ironico, come testimonia l’inserzione oggettuale di un galleggiante da pesca, sul filo del blu marino in un dipinto come Buona pesca. In fin dei conti, non è male che il sorriso venga a sciogliere ogni addensamento teorico, riscoprendo nell’espressione estetica la componente ludica. Roma, luglio 2006